Nel 1417 suor Antonia figlia di Antonello “dello Rino” fu la priora a Pisa del convento delle suore domenicane di Santa Marta, e di “Santa Maria Maddalena, e Santa Maria di Valli Verde [Buti]”, come allora era scritto.
L’istituto, detto poi solo di Santa Marta, era stato fondato circa nel 1342 unendo alcune case religiose, evidentemente troppo piccole per portare avanti la vita comunitaria da sole: quelle ricordate di sopra e in più Sant’Andrea di Lupeta di Vicopisano e Santa Maria degli Angeli di Cisanello.
Lo stesso monastero di città aveva avuto già un titolo particolare: “Sancta Martha detto Misericordia alla Spina”, che ritroviamo ricordato ancora in questa forma in una nota del quattrocento riguardante il testamento di Piera vedova di Gregorio Pattieri e il suo dono di 25 fiorini d’oro alla nipote suor Piera, rogito di ser Gherardo del Pitta.
Tornando alla priora del 1417, suor Antonia doveva essere una donna intelligente e cauta che forse, dopo più di settanta anni dalla fondazione, vedeva la memoria delle cose affievolirsi e un futuro incerto avvicinarsi. Così fece scrivere un Libro delle Possessioni per mettere sulla durevole carta “le tere, case e vigne, ulivi et altri fructi et posesioni, terreni e boschi, e i diritti, cioè gli affitti, i livelli o il terratico e la rendita.
Una seconda priora, innominata, prese nel 1435 simile iniziativa e fece compilare il “libbro nuovo, facta la guera”.
Con mano più incerta segnò ciò che rimaneva delle rendite – in grano, miglio, fave, farina o denaro – dopo i pessimi effetti degli eventi bellici, non descritti, ma da ricondurre alle truppe devastanti di Niccolò Piccinino e dei milanesi contro Firenze.
La suora ricordò i conducenti rimasti, giustificando il mancato pagamento di quanto dovuto con occasionali aggiunte, quali: “elli fece guerra ... 1429” ... “è per l’amore della guerra”e simili.
Ovvero usò più volte una frase – “amor della guerra” – che ci dice come certi affittuari o i livellari, forse i più animosi, avessero preferito o preferissero arruolarsi nelle compagnie militari e cercare il bottino delle prede invece di spaccarsi la schiena con la vanga o la zappa nei campi.
In ogni modo, scoppiata una qualche pace, detti conducenti tornarono in maggior parte a pagare il dovuto e a recare i prodotti al convento che debitamente li segnò nel “libbro nuovo”. Giungevano con le barche o con i carri nel consueto mese d’agosto, dopo la mietitura e la trebbiatura del grano e passavano le porte cittadine, soggetti all’immancabile gabella a carico delle suore. L’anno 1442 furono segnati Pagno d’Antonio da San Sisto “venne per la porta di Piagge” e Nanni di Domenico detto Migliaccio da Oratoio “per la porta di San Marco”.
I beni di Cisanello
Alcune delle terre di Santa Marta si estendevano nei comunelli di San Biagio e di San Giusto a Cisanello.
Erano in piena campagna, prossime ai suddetti centri che facevano parte di una organizzata rete di ville in fila presso l’Arno – simile a quella dei quartieri entro le mura, come abbiamo visto –, necessaria quanto il fiume era vitale per i pisani. Potremmo dire anche struttura ‘perduta’ perché oggi Cisanello è zona inglobata nella città ed è occupata da un grande ospedale, da palazzi di ogni stile, colore e altezza e da strade trafficate, a formare tutti un insieme quasi stupefacente per chi legge le carte d’archivio e ne vede la palese differenza.
Le terre di San Biagio, dunque, erano diverse, dice il manoscritto di suor Antonia. Qui c’era un appezzamento – “fue del monisterio degli Angiuli” – alla via di Pagliaro, presso l’Arno, il quale era stato comprato da suor Iacopa dei Folli per 120 lire nel 1344, carta di mano di ser Bernardo di Iacopo Salvi.
Nello stesso comunello si trovava la casa a confine con la via del “Pellello” lasciata da Agnese detta “Nensa”, figlia di Riccio di Masseo e moglie di Vanni Virciaio, per dote “dell’altare posto in Santa Marta”, carta rogata d ser Pellegrino di Nocco Pellegrini nel 1349.
C’erano poi la terra e il canneto di Comunaglia sulla via omonima, acquistati nel 1364 da suor Benedetta di Giovanni Baronto per 120 lire, carta rogata da ser Bernardo suddetto.
Seguivano delle proprietà descritte in modo meno analitico: erano in “Piagia”, presso l’Arno o l’argine. Quelle della villa di San Giusto confinavano con la via di Padule o sempre con il fiume o con la strada pubblica. Tra i vicini segnaliamo, per non perderne la memoria e per la curiosità, il canonico del duomo messer Lapo da Putignano, cui successe messer Bartolomeo da Morrona, e un certo Piero di Lapo “vermicellaio” di Pisa – i “vermicelli” erano una pasta simile agli spaghetti.
Una di queste proprietà era stata venduta al monastero da Sighieri di Lapo Lanfreducci nel 1366, carta di ser Francesco di ser Niccolò da Cisanello; un’altra da Betto di Betto degli Upezzinghi per 190 lire nel 1351, rogito di ser Bonaccorso Ciampoli.
Non fatichiamo a riconoscere nei venditori i benefattori della prima comunità di suore.
Il drago
La suora innominata che compilò il “libbro nuovo” fece a metà di una pagina una gradevole “prova di penna”, cioè un disegno a mano libera (v. la foto). Volle figurare un cavallo? O un drago? Rassomiglia in verità più a un dinosauro, ma all’epoca questa parola non esisteva nel vocabolario dei pisani e nemmeno in quello degli abitanti dell’orbe terracqueo, essendo stata coniata nel 1842 da una paleontologo inglese (Wikipedia e altri).
Aiuta però nella ricerca del senso del disegno la leggenda agiografica di Santa Marta che, stabilitasi con i fratelli Maria e Lazzaro in Provenza, addomesticò il tremendo drago Tarasque a Tarascona sul Rodano, e ottenne per questo e per la sua sempre cortese disponibilità, la gratitudine dalla popolazione che ne volle la tomba in città. Il suo monumento funebre è presente ancora oggi nella collegiata.
La ricetta
Un curioso appunto del secondo Libro riporta una ricetta che trascriviamo (l’interpunzione e le parentesi sono mie):
“Affiatione di ghabbe [rigonfiamento di gambe]:
fiori e bucchie di milagrane [buccie di melograni] e mortella seccha e elora [edera] di questa che va su per le mura e tramarino e sarvia [rosmarino e salvia] e fro(n)de di iobbo [pioppo?] e fro(n)de di mele cotogne e uno mezzo quarto di buono vino o biacco [bianco] o vermiglio che sia e fa’ bol(l)ire insieme e lavane le ghanbe alla n su [in senso ascendente]
fare rinstigere [?] lo male dello andare [piedi gonfi e calli?] pilla [piglia] gracci [?] e falli sechare in porvere [polvere] e fanne nove frit(t)elle e pigliane tre mat(t)ine”.
Cosa aggiungere a commento? Solo una nota sulle suore che conducevano vita segregata, tranquilla e ... sedentaria, lavorando con i ricami o nelle cucine. Da qui, forse, l’origine del rigonfiamento di gambe e di piedi e la ricerca del rimedio e dell’appunto.
Paola Ircani Menichini, 10 dicembre 2021.
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